di Franco Foschi
Succede che, per cause del tutto fortuite, mi capiti tra le
mani, e venga sfogliato con lieve distrazione, un giornale dal nome casaviva.
Lo stampa l’editore Mondadori, e recita sotto il nome della testata questa
frase: ‘il mensile per chi ama e vive la casa’. Il numero è
recentissimo, data febbraio 2005.
Stante la copertina, è chiaro che questo è un mensile per chi
la casa ce l’ha, non certo per i senza fissa dimora. Sfoglio e a pagina
34 vengo clamorosamente smentito: ‘una casa per chi non ha casa’
è il titolo di un articolo a firma Gigi Capriolo e Paola Fragnito (comprendiamo
la necessità di essere in due per scrivere certe cazzate, anche se in
un articolo di sì e no 1800 battute). Si inizia, per dare una parvenza
di cultura al tutto, citando Wim Wenders e il suo film Land of plenty (guardandosi
bene dal dare il titolo in italiano), giusto perché parla di barboni.
Si prosegue poi con un paio di nomi altisonanti, e cioè l’Istituto
Quasar Design University di Roma (tutte maiuscole: ma chi l’ha mai sentito
dire?) e l’International Design Academy of Okinawa, Giappone (tutte maiuscole
anche qui, ma sempre misconosciuto, anche se giapponese), autori in collaborazione
(?) di un progetto per i senza fissa dimora mostrato in un workshop (?) svoltosi
a Roma. Il progetto riguarda due “case itineranti” (le virgolette
sono degli autori) per i barboni, poverini, che così non prendono troppo
freddo. Veniamo dunque a sapere (anzi, veniamo pure gratificati dalle foto)
che la Caritas di Roma e la Comunità S. Egidio distribuiranno aggratis
2.000 pezzi ai barboni (ma l’articolo butta lì non appena disponibili,
che lascia dubbiosi). 2.000 pezzi di cosa? Di Living box (ma non si vergognano?),
cioè “uno scatolone in cartone riciclato, pieghevole, ignifugo,
impermeabile, completo di finestrelle, tasche, e di due fotocellule per illuminare
(per evitare i pericolosi incendi... ah-ah!), che una volta montato consente
di sdraiarsi”. Oppure, in alternativa, di applicare alla solita panchina
“un decappottabile pieghevole. Si aggancia allo schienale e poi si fa
ruotare chiudendo. E’ in Pvc e polipropilene, ed è portatile”.
Già mi basterebbe il concetto per provare nausea. Ma l’articolo,
per quanto breve, infierisce: “Diversi sponsor sono stati individuati
e altri se ne stanno cercando a fronte di un costo preventivo di ciascun living
box di 12 euro”. Allibisco: 12 euro per 2.000 non fa forse 24.000 euro?
Quante case vere si potrebbero trovare, con affitti controllati, per i senza
fissa dimora? Quanti servizi potrebbero essere migliorati con una cifra così
rilevante rispetto all’abitualmente esangue budget delle associazioni
che si occupano dei senza fissa dimora (tipo Piazza Grande, per intenderci)?
Poi si tenta di rassicurarci: “Le diverse soluzioni progettuali curano
attentamente gli aspetti tecnici: ripari leggeri, veloci da montare, ignifughi
e idrorepellenti. Materiali e forme nomadi che salvaguardano il primario principio
di libertà di fruizione dello spazio pubblico dei clochards”.
Siccome è una stronzata quanto è scritto, e stronzo è anche
chi l’ha scritto, comincio con il fare il pignolo: giornalisti professionisti,
somari, la parola clochard è straniera, e quindi, di regola, in italiano
è intransitiva, non dovevate aggiungere nessuna ‘s’ finale.
Ignoranti!
Poi: il primo pensiero che questo articolo vergognoso mi ha stimolato è
il ricordo di un famoso aneddoto della rivoluzione francese. Il maggiorente
descrive alla regina di Francia i tumulti popolari, concludendo con una esclamazione:
“Maestà, il popolo ha fame!” – al che quella maestà
risponde: “Distribuite brioche!”
Ecco, questa mi sembra la logica che anima ‘sti due istituti di design,
i due giornalisti consenzienti, l’editore Mondadori, la Caritas, la comunità
S.Egidio, e tutte le istituzioni (ops, ho dimenticato la maiuscola!) che si
occupano del disagio sociale: la logica del ‘poverini!, diamo loro una
brioche, così si dimenticano della fame e se ne stanno a dormire sotto
i portici (quando va bene) senza rompere troppo i coglioni’.
Secondo questa gente (va là, chiedo scusa a Caritas e S.Egidio) i barboni
sono interessati a salvaguardare il primario principio di libertà di
fruizione dello spazio pubblico... Ma porcamiseria, i barboni vogliono una casa
vera, un lavoro, vogliono qualcuno che li aiuti a uscire dalla droga o dall’alcol,
vogliono poter accedere alle medicine di cui hanno bisogno, vogliono un indirizzo,
una dignità, e magari alla lunga qualcuno che voglia loro bene... Vorrei
chiedere ai designer (e ai due giornalisti) se secondo loro poi i barboni metterebbero
dei fiori alle finestrelle, delle tendine di pizzo al pieghevole da panchina,
spazzerebbero ben bene i cartoni-casetta e magari, prima o poi, si doterebbero
anche di doccia...
Nausea continuo a provare, anzi, repulsione, per questo spreco di tempo, risorse
ed energie, a favore di operazioni vuote e retoriche, per quelli che un tempo
venivano definiti provvedimenti-tampone (una cosa in cui sono specializzati
i governi, qualsiasi governo). Nessuno che si chieda mai perché incontra
per le strade di Bologna, e di Italia, e del mondo, migliaia di sbandati, che
non sanno che fare, dove andare, soli, malati: nessuno che si chieda perché,
e cosa fare per vederne le fila ridursi, non ingrossarsi come tutti possiamo
constatare, giorno dopo giorno...
Che vergogna l’articolo di cui sopra, e l’idea, e l’immobilità
della cultura contemporanea: forse sarebbe ora di riscoprire quel frutto aspro
che porta il nome di indignazione, e di utilizzare quel linguaggio, come diceva
Cioran, che fracassa le mascelle.